Le difficoltà di misurarsi con falsi miti e aspettative. Riflessioni dopo la fine di due giovani vite

Le difficoltà di misurarsi con falsi miti e aspettative. Riflessioni dopo la fine di due giovani vite
19 Apr 2018

Una aveva quindici anni, l’altra ventisei. Beatrice e Giada. La prima frequentava il liceo musicale a Vercelli, la seconda la Facoltà di Farmacia dell’Università Federico II di Napoli. Non si conoscevano. Ma vivevano entrambe un momento buio e difficile. Quello che provavano era sicuramente lo stesso senso di insoddisfazione, di inadeguatezza. La realtà con cui avevano ogni giorno a che fare era diventata per loro un macigno. Così, mosse da motivazioni e in circostanze diverse, entrambe, a poche ore di distanza l’una dall’altra, hanno scelto di dare un terribile epilogo alla loro esistenza.

Beatrice aveva qualche chilo di troppo. E tutta una vita davanti per imparare ad accettarsi, per scegliere di cambiare, per comprendere che quello che ora sembrava tutto, in realtà, tra qualche anno, avrebbe avuto una rilevanza decisamente minore. Ma a quindici anni è tutto o molto bianco, o molto nero. E i falsi miti creati da media e dai social sicuramente non aiutano gli adolescenti a vivere con serenità un momento così delicato della loro vita, in cui devono imparare a conoscere se stessi e il mondo intorno a loro, scegliendo la strada che li porta a cosa vorranno diventare.

E così, tediata dal suo disagio e dall’impietoso giudizio di chi non si risparmiava nel farle notare la sua “diversità”, un mercoledì mattina come tanti, mentre era alla stazione Porta Susa di Torino con i suoi compagni, ad aspettare il treno che ogni giorno la accompagnava a scuola, con lo zaino in spalla pieno dei suoi sacrifici e dei suoi sogni, ha preso una decisione agghiacciante. Ha sentito il convoglio arrivare in lontananza, pochi istanti che non hanno lasciato spazio ai ripensamenti, e si è lasciata cadere, mettendo fine troppo presto alla sua vita, che neanche la sua amata musica le ha permesso di apprezzare fino in fondo.

E’ stata sopraffatta dai pregiudizi, dai modelli sbagliati che la società continua a creare, dal bullismo, dalla debolezza di una bambina che sta provando a crescere, ma che si trova ad affrontare delle prove che sono più grandi di lei.

Amarezza. Dopo, quando si realizza che non si è trattato di un incidente, quando si ascoltano le parole di chi le voleva bene, resta solo tanta amarezza. E rabbia. Perché forse qualcosa si poteva fare. E perché, nonostante quanto sia accaduto, ci sono ancora persone pronte a fare ironia, a commentare la notizia sul web con insensibilità e cinismo, nascondendosi dietro banali nickname, quasi a proteggersi per primi dalla loro stessa cattiveria.

E mentre tutto ciò diventava l’argomento di punta di servizi televisivi, talk show e dirette strappalacrime (e lo dico non senza una nota di polemica e di stanchezza nei confronti della strumentalizzazione delle notizie di cronaca che ormai è all’ordine del giorno), a Napoli una ventiseienne si incastrava in un labirinto di bugie, confezionava bomboniere per una seduta di laurea che sapeva bene non ci sarebbe mai stata, aspettava in facoltà amici e parenti, accorsi eleganti per festeggiarla, ignari del fatto che quel giorno le avrebbero dato, invece, l’ultimo saluto. Con un bel tailleur da laureanda è salita sul tetto e si è lanciata nel vuoto, proprio sotto gli occhi del fidanzato a cui aveva deciso di rispondere al telefono pochi momenti prima del folle gesto.

Non aveva sostenuto nemmeno un esame, in quattro anni. Aveva raccontato per tutto questo tempo di un mondo che non le apparteneva, ma a cui si sentiva evidentemente costretta. Anziché affermare se stessa e le sue inclinazioni, disattendere le aspettative della sua famiglia, ha preferito vivere gli ultimi anni in una ragnatela di bugie, che inevitabilmente era diventata ormai troppo stretta.

Tra le righe lette in questi giorni, le parole del Professor Guido Saraceni, docente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo, mi sono rimaste particolarmente impresse.

“L’università non è una gara – scrive Saraceni -, non serve per dare soddisfazione alle persone che ci circondano, non è un’affannosa corsa ad ostacoli verso il lavoro. Studiare significa seguire la propria intima vocazione. Cerchiamo di spiegarlo bene ai nostri ragazzi. Liberiamoli una volta per tutte dall’ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo.

Lasciamoli liberi di essere se stessi e di sbagliare. Questo è il più bel dono che possano ricevere. Il gesto d’amore che può letteralmente salvarne la vita”.

Non vi nascondo che mi sarebbe servito leggere queste parole qualche anno fa, quando ero solo una figlia e una studentessa. E che sicuramente non le dimenticherò adesso, da madre, quando dipenderà da me e dal peso delle mie aspettative la serenità con cui mio figlio imparerà a rapportarsi con le sfide e con le delusioni della vita.

Ridimensioniamo gli standard che la società ci propone. Non è detto che si debba essere tutti fisicamente perfetti, aspiranti modelli e veline, oppure brillantemente laureati, potenziali medici e ingegneri. La felicità non può dipendere solo dalla taglia, dal titolo, dalla notorietà e dal voto di un esame.

La felicità è sentirsi liberi. E’ questo il più grande regalo che possiamo fare a noi stessi e ai nostri cari. Pensiamoci.

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Francesca Maci

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